Coppie – Valigia Blu

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Stefano e Antonio, sposi a Londra

Io e Stefano ci siamo sposati a Londra a settembre 2014, dopo aver vissuto lì per molti anni. Ci è sembrato il passo più naturale e giusto da compiere, in un Paese dove era stato appena esteso il matrimonio civile alle coppie dello stesso sesso.

Con quella legge di civiltà, il Regno Unito riconosceva formalmente quei legami che, come il nostro, durano da anni, sigillato dalla firma di un ufficiale di sua maestà: per noi, con tanto di foto accanto al ritratto della regina, giro sul tipico double-decker bus londinese e pranzo nella vecchia County Hall, con l’impareggiabile vista del Big Ben sullo sfondo.

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È stato un momento davvero bello, commovente e divertente come ogni matrimonio che si rispetti – circondati da amici e parenti che da sempre ci sostengono e che non ci fanno sentire né soli, né diversi. Il rientro in Italia, però, ha cancellato in poco tempo la magia di quel momento – perché il nostro Paese si ostina ad ignorare quella che in Gran Bretagna, e in buona parte d’Europa, è un’unione legalmente riconosciuta, con diritti e doveri reciproci.

Così ci siamo ritrovati coinquilini, pur condividendo una storia d’amore da oltre 10 anni, e vivendo sotto lo stesso tetto da quasi altrettanto. E pur programmando insieme ogni passo della nostra vita – dal fare la spesa, all’andare a prendere le nipotine a scuola, dal chiedere un prestito in banca al firmare una lettera per il postino, dal passare dal medico per una ricetta al portare il gatto dal veterinario – in realtà ci scontriamo quotidianamente con una triste realtà: da un punto di vista patrimoniale, formale, legale, non siamo considerati come un nucleo unico e stabile.

Per questo Paese, siamo ancora due persone che casualmente vivono assieme, niente di più. Se uno dei due stesse male, in ospedale non avremmo diritti perché non siamo riconosciuti come parenti; e se un giorno uno dei due non ci fosse più, l’altro non avrebbe protezione legale rispetto ai familiari riconosciuti dalla legge.

Il disegno di legge in discussione in Parlamento non è ancora abbastanza, perché per noi “uguaglianza” e “stessi diritti” hanno un significato ben chiaro: uguale significa uguale, senza asterischi. Però questa unione civile proposta dal governo Renzi, purché non ulteriormente impoverita come si è tentato di fare di recente, è il minimo indispensabile che uno stato civile deve ai suoi cittadini – visto che paghiamo le tasse esattamente come chiunque altro, contribuiamo al progresso economico del nostro paese e siamo parte attiva della sua vita sociale. La contribuzione ai bisogni comuni, la step-child adoption, la reciproca assistenza, le decisioni sulla salute, le pensioni di reversibilità, sono riconoscimenti necessari e doverosi, da cui proprio non si può prescindere, altrimenti sarebbe una legge senza senso.

Noi però non ci fermeremo. Continueremo a chiedere il matrimonio, che nel nostro caso è già stato riconosciuto in Gran Bretagna, Francia, Spagna, e un’altra dozzina di paesi civili. E speriamo un giorno di poter anche diventare genitori. Insegneremmo ai nostri figli il rispetto per tutti, il diritto all’uguaglianza e il diritto di essere se stessi, non una fotocopia dei propri genitori.

A chi dice che siamo contro la famiglia “tradizionale”, abbiamo solo questo da dire: non esiste una famiglia “tradizionale” perché ogni famiglia è diversa e uguale solo a se stessa, e l’unico elemento necessario a tenerla in piedi è l’affetto. Noi due siamo già famiglia, e amiamo fortissimamente quelle da cui proveniamo. Avremmo potuto restarcene in un altro paese, dove il matrimonio, l’adozione, l’omogenitorialità e la non discriminazione sono la prassi. Ma amiamo così tanto le nostre famiglie di origine, i nostri amici e la nostra Italia, che non ce la facevamo a starcene lontano per sempre


Segnalato da:
Stefano Bucaioni

Categories:   Segnalazioni

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